Tagliare lungo la cicatrice piu’ dura.
Incidere a fondo con la lama affilata di un coltello sporco di anni.
E aspettare quei secondi fino alla macchia piu calda del sangue.
Non l’avresti mai detto, vero?
Siamo ancora dentro questa ferita che e’ stata gia’ curata e martoriata piu’ volte.
Tirare i lembi della pelle, e sentire che brucia. Non c’e’ nessuna altra soluzione.
Lascio che il dolore mi controlli e sfinisca, il destino ha voluto essere invadente questa volta e non ci ha lasciato altra via di scampo che questo foglio bianco in cui scrivere e questi coltelli per insegnarci che non si fugge da se’. Voglio essere io stesso ad usarli contro di me per capire se l’istinto di conservazione e’ piu’ forte della volonta’.
Ora fa freddo e non vedo piu’ bene i contorni delle cose, perdo il controllo e ho paura. No, non ora. Non so se mi stringi cosa succede, cosa cambia. Non so se questo caldo abbraccio e’ il filo di sutura per questa ferita che mi sono provocato e che sporca anche te. Non lo volevo, veramente. E’ una ingiustizia trascinarti a forza in questo sopruso ed esigere che sia tu a salvarmi. Tu non hai colpe. E’ stato il tempo a raffinare le sue tecniche contro la solitudine e a germinare questo nodo duro e doloroso sotto la pelle. Ora se puoi aiutami, non avere pieta’ ma affonda e scava. Sotto il muscolo, attraverso le ossa, spezza i tendini. Gira il polso verso l’interno, afferra il ferro a pieno palmo e spingi in basso facendo leva sull’osso. Senza cura ed attenzione. Il dolore e’ solo uno spasmo che si rilascia in una vampa di sudore e recupero il fiato per un attimo. La lama cosi’ lacera la pelle e porta fuori tutto questo. Vedi : e’ cosi facile. Il mio piccolo figlio del dolore non e’ sporco di sangue. Non ha colore. E’ perfetto e fragile. L’ho coltivato cosi’ perche’ fosse insopportabile e la sua presenza mi ricordasse qualcosa di te, forse. Ancora piu’ di me, di quello che e’ aspettare la liberta’ tra le quattro mura di una camera e sentire le urla fuori. Di quello che e’ la vana ricerca di un po’ di poesia nel metro a gennaio. Con i guanti a mezzo dito per stare al caldo ma potere accarezzare il metallo freddo dove passa tanta vita. Con le unghie e con i denti attaccarsi alla speranza dimenticando la realta’ per lunghi inverni e lunghe estati.
Ora avrei voglia di festa. E di ballare tutta la notte senza pensare al sangue versato. E guardare i volti degli amici piu’ cari illuminati dalla luce del fuoco. Le voci intorno che non capisco mi avvolgono. Ho vissuto quel calore. Lo so. Mi sentivo leggero.
Si, il sangue necessario che ci da la vita ci ha preso tutto. In se’ c’e’ un rosso che sconcerta e spaventa ma che trascina con se oggetti, ricordi, alberi, montagne. Non si ferma mai e spinge sulle nostre resistenze, sulla morale presa in prestito. Sembra lavare via le uniche riserve di speranza di condurre una vita cosi’ come e’ ora: semplice.
Cerchero’ di resistere ancora un poco. Ancora il giusto per vedere se dietro i tuoi occhi imprigionati hai abbandonato tutto anche tu e hai deciso di impugnare il coltello verso te stessa.
mercoledì 8 agosto 2007
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